40 ANNI DI CARITAS TORINO
INTERVISTA A PIERLUIGI DOVIS

Una Caritas mutevole e generativa di processi

In occasione dei 40 anni di Caritas Torino, intervista al suo direttore Pierluigi Dovis

«La carità ha bisogno del riconoscimento dei diritti perché altrimenti diventa azione fine a se stessa. Caritas ha questo compito, spesso definito di “advocacy” e che invece credo sia qualcosa di più, perché non consiste semplicemente nel patrocinare i diritti delle persone ma invece lavorare per la giustizia, visto che non si esaurisce in essi».
La Caritas diocesana di Torino ha appena compiuto 40 anni e il suo direttore, Pierluigi Dovis, fa un bilancio di un’attività in continuo cambiamento, focalizzando l’attenzione sul ruolo che l’opera di carità ha e deve avere nella trasformazione della società.

Com’è cambiata Caritas Torino in questi 40 anni e in che fase si trova oggi?

È cambiata molto, soprattutto negli ultimi 15 anni, per varie ragioni. Innanzitutto perché è cambiato il panorama sia rispetto alle povertà che rispetto alle comunità ecclesiali, che sono i due grandi beneficiari dell’attività di Caritas. La povertà è andata ampliandosi in quantità e qualità, mentre le comunità cristiane sono andate implodendo certamente in quantità e in alcuni casi forse anche un po’ in qualità.

Il secondo elemento che ha portato al cambiamento è stato l’avvicendarsi dei vescovi, che con le loro sensibilità pastorali hanno condotto Caritas da una posizione più votata alla formazione delle comunità e degli operatori ad una posizione che, pur mantenendo quella direttiva, ha trovato l’importanza di coltivare dei segni operativi che diventassero azione formativa nei confronti della comunità e della società civile.

Questo ci dice che la nostra Caritas in questo momento è profondamente mutevole, nel senso buono e alto del termine. Cioè siamo un po’ in mezzo a un percorso di cambiamento sia rispetto al modo di interpretare la finalità animativa che ogni Caritas ha, sia rispetto agli elementi gestionali che consentano di tenere insieme l’attenzione alla formazione con quella al servizio concreto e diretto. Per questa ragione si tratta di un momento delicato del percorso di Caritas, perché richiede di modificare degli elementi che riceviamo dal passato per andare verso il futuro.

Qual è un esempio concreto emblematico di questo cambiamento?

Nel 1991, quando sono entrato io, la Caritas di Torino aveva sostanzialmente solo il Centro d’ascolto diocesano, che ospitava un centinaio di persone all’anno facendo interventi di tipo assistenziale/assistenzialistico. Oggi ci troviamo ad avere invece un panorama che ha ancora il Centro d’ascolto come servizio di base, ma che da solo serve più o meno 12mila persone (tra single e famiglie) della città di Torino e prima cintura.

Questa situazione è andata poi ulteriormente ampliandosi, perché da un anno il Centro d’ascolto ha anche attivato una sezione all’interno della casa circondariale “Lorusso e Cutugno”. Parto dal Centro d’ascolto perché riteniamo questa attività il servizio base della Caritas diocesana. Come fa una Caritas a indirizzare il proprio servizio, sia verso i poveri sia verso l’animazione delle comunità, senza un luogo che ha come obiettivo non l’assistenza ma l’ascolto delle persone, la conoscenza della situazione, il rapporto con i problemi? Cioè non basta l’osservazione, pur necessaria, è importante avere un rapporto diretto con le persone e il Centro d’ascolto è il luogo dove si incontrano, si annusano i problemi per trasferirli dove possibile a realtà ed enti, dalle parrocchie in poi, che possano farsene carico attraverso un accompagnamento serio. A fianco di questo servizio di base, nel corso degli anni se ne sono prodotti molti altri.

Puoi fare un quadro aggiornato dei servizi di Caritas Torino?

Una prima famiglia è quella dei servizi full time, cioè la vera e propria accoglienza.

Il progetto Sister, fatto di alloggi temporanei (una ventina) per famiglie sottoposte a sfratto esecutivo e che sono ospitate per un periodo limitato di tempo. Da otto anni è partito un cohousing sociale denominato Dorho (Don Orione housing), rivolto a famiglie sottoposte a sfratto in attesa di entrare in alloggi popolari e studenti universitari fuori sede: il matching è utile per la sostenibilità economica dell’opera, dal momento che le tariffe pagate dagli studenti, seppur basse, compensano il poco o nullo pagamento delle famiglie in difficoltà. Si è anche creata un’interazione virtuosa tra ragazzi e famiglie, circa 600 persone in tutti questi anni, con un clima di fraternità che è un obiettivo importante per una Caritas, la quale non ha il compito di risolvere problemi o di fare il servizio sociale ecclesiastico ma di generare fraternità.

A fianco di questi due, un altro piccolo progetto di housing chiamato Agrisister, una coabitazione guidata in una casa avuta in comodato gratuito sulle colline di Cavagnolo, dove alcune persone (4-5) ultrasessantenni, da poco tempo senza dimora, sono accompagnate alla pensione o a una soluzione abitativa e lavorativa svolgendo attività di orticoltura e apicoltura al fine di mantenere le resilienze in loro possesso.

Poi c’è la Casa Beata Vergine Consolata a Moncalieri, prima esperienza di accoglienza full time nata nel 2004 per affrontare il problema delle persone senza dimora durante l’inverno: inizialmente luogo di accoglienza per donne sole, si è trasformato in accoglienza per donne con figli minori, attualmente l’unica esperienza nell’area metropolitana ad ospitare madri con bimbi che non possono essere accolti in altre strutture perché privi dei requisiti richiesti. C’è il progetto Ancorapapà, cioè due alloggi dove i padri separati che non possiedono un’abitazione adeguata ad ospitare per qualche giorno al mese i loro figli possono restare 4 notti e 4 giorni svolgendo pienamente il loro ruolo di padri; il progetto è stato denominato Casa di nonno Mario (dal nome di un diacono, storico collaboratore di Caritas) per far capire ai bambini che quella non è la casa del loro papà, ma di un ipotetico nonno: non si tratta di un progetto di assistenza bensì di sostegno alla genitorialità, che in 4 anni è stato utilizzato da circa 150 padri. Infine per il terzo anno, sulla base di un accordo tra la Diocesi e la Città di Torino, sono stati resi disponibili per l’inverno quasi 150 posti letto per persone senza dimora, suddivisi in sette sedi diverse: dormitori aperti da novembre ad aprile, con l’obiettivo di tenere le stesse persone per tutto l’inverno al fine di comprenderne meglio i problemi e ricercare soluzioni; tra queste strutture, in collaborazione con la Pastorale della salute ne abbiamo attivata una specifica per persone senza dimora con problemi di dipendenze aperta tutto l’anno, una delle poche di questo genere in Italia. Aperto tutto l’anno anche il piccolo dormitorio femminile, che prevede attenzioni per le ospiti più in stile di comunità che di dormitorio.

Una seconda famiglia di servizi comprende invece quelli improntati sull’accoglienza diurna. La Sosta, il centro pomeridiano per persone senza dimora che da pochi mesi è in via Arcivescovado dopo essere stato in via Giolitti.
Il laboratorio Daccapo, piccolo laboratorio di falegnameria e minuteria che inizialmente accoglieva solo persone senza dimora disponibili a sperimentare attività di bricolage e che da un po’ di tempo accoglie anche detenuti che possono uscire per attività di pubblica utilità o di volontariato.

Il laboratorio Fuori Campo, attività di comunicazione svolta con persone in difficoltà socioeconomica che cura una pagina mensile sul settimanale diocesano “La Voce e il Tempo”. La mensa Spazio d’angolo, in via Capriolo, unica mensa serale cittadina aperta 365 sere l’anno per 40 posti, che in estate diventano anche 60, e che si sta arricchendo di altri servizi per le persone senza dimora utilizzando la stessa struttura nelle ore diurne: un piccolo centro d’accoglienza mattutino, un servizio di avvocati di strada, un laboratorio di cucina, un laboratorio di informatica.

Oltre al sistema dei servizi c’è poi l’altra attività centrale per Caritas, quella dell’animazione…

Certo, che negli ultimi anni si è strutturata e sviluppata, con una serie di moduli formativi che vengono portati sui territori per dar vita a nuove attività o qualificare quelle già esistenti portate avanti dai volontari delle Caritas parrocchiali e dei Centri d’ascolto. Al momento 30 parrocchie e unità pastorali sono impegnate in questi moduli, che una volta terminati continuano attraverso azioni di tutoraggio o supervisione. Oltre a questa attività sono stati avviati alcuni progetti animativi che hanno al loro interno anche aspetti di servizio. Ad esempio, il progetto Giovani per il terzo settore, che utilizza questo ambito per fornire competenze specifiche ai giovani. Oppure il progetto che aiuta le comunità nella raccolta e distribuzione di alimenti a favore delle persone in difficoltà, agganciandosi alla recente esperienza degli empori solidali che attualmente sono sei all’interno della Diocesi di Torino: attraverso un elemento semplice e concreto come il cibo, le comunità sono incentivate a prendersi cura dei destinatari della raccolta. In quest’ottica è nato lo scorso anno il progetto Pane nostro, per la raccolta di cibo nelle scuole, mettendo in connessione sul territorio i plessi scolastici con le comunità parrocchiali: si tratta allo stesso tempo di un’attività di raccolta e di educazione nonché un’occasione per le comunità scolastiche di riflettere sul tema del cibo, dello spreco alimentare, del riciclo ecc.

La Caritas di questi anni si è cioè lanciata anche su temi di confine con il suo ruolo. Un esempio è il progetto Comunità di pratica, attivo nelle Valli di Lanzo, che sta cercando di mettere insieme persone in disagio perlopiù economico e possibili risorse inutilizzate del territorio, così alcune persone sono formate alla manutenzione dei sentieri e all’attività di guide per gruppi turistici (anche di disabili): sulla base di fondi dell’8xmille insieme ai Comuni, al Cai, ad associazioni e unità pastorali del territorio e alla Compagnia di San Paolo abbiamo dato vita a questo progetto, che attualmente occupa 10 persone in difficoltà (5 guide e 5 sentieristi), per dare un piccolo contributo a risollevare quel territorio. Anche questo è un modo di fare animazione, certo diverso da quello che aveva la Caritas diocesana alcuni decenni fa. Così come l’azione di economia sociale che Caritas sta facendo attraverso la mediazione del comitato S-Nodi, appositamente costituito, che ha dato il via al progetto Fa bene per la raccolta alimentare nei mercati cittadini e che ora è diventato una policy della Città metropolitana, con progetti targati Fa bene per l’attivazione delle comunità in 6 comuni.

 

Quindi è una Caritas che si fa anche promotrice di buone prassi…

Abbiamo dato il via ad alcuni processi, perché uno degli elementi importanti della Caritas attuale e soprattutto futura è quello di essere un attore generativo di processi più che un attore di attività operative, le quali hanno grandi costi di gestione e richiederebbero una capacità organizzativa molto impegnativa che poi blinda le prospettive, mentre invece la generazione di processi dà la libertà di lasciare andare il processo nelle mani di qualcun altro e di dedicarsi ad altre modalità di processo. Dobbiamo cioè dare esempi che in qualche modo siano poi seguiti, cosa che in effetti sta succedendo. Ad esempio, l’ultimo dormitorio della rete Caritas è stato attivato da una parrocchia che lo gestisce autonomamente, oppure l’housing Dorho è stato riprodotto dalla congregazione degli orionini in Liguria, anche il cohousing sociale del Cottolengo (Civivo 15) è nato su impulso di Dohro, tra qualche mese partirà Ma.Ri. house che è la replica di Dorho con un’altra congregazione religiosa, così come iniziative simili partite dal nostro modello si stanno attivando su altri territori, mentre varie comunità già esistenti per padri separati hanno aggiunto il servizio per papà esterni privi di un luogo adeguato per incontrare i propri figli, come facciamo noi con La Casa di nonno Mario.

L’essere generatori di processi è anche dettato dalla necessità: tutto l’insieme di attività, iniziative e progetti descritti, a cui si aggiungono le piccole progettualità quotidiane e le emergenze, è diventato pesante da portare avanti per una Caritas diocesana rimasta quella che era sia nei numeri degli addetti sia nella struttura, quindi molto piccola ma chiamata a gestire una rete molto ampia e differenziata. La sfida è dunque riorganizzativa, senza però sviare l’obiettivo fondamentale che è quello di animare alla carità più che di fare la carità.

Questo comporta però anche compiti nuovi rispetto al passato per i volontari, su cui si basa l’opera di Caritas, no?

In effetti, i nostri operatori della parte territoriale dovrebbero allontanarsi un pochino dalla dimensione assistenzialistica che li connota, ma ciò non è semplice perché ci sono questioni di varia natura tra cui l’urgenza dei problemi e l’età media piuttosto alta dei volontari, che supera i 70 anni. Stiamo provando a coinvolgere il mondo giovanile con progetti quali Giovani per il terzo settore e Servire con lode, in ambito universitario. Ma la questione è complessa, perché non basta avvicinare i giovani al volontariato, bisogna cambiare il modello di volontariato perché altrimenti i giovani si avvicinano, ci rimangono un po’ e poi scappano. Per questo la formazione dei volontari è fondamentale. Nella nostra attività di formazione troviamo però molta disponibilità tra chi non è ancora volontario e grandi resistenze tra chi lo è già, che fatica a ripensare le modalità di intervento per timore del cambiamento. I nuovi poveri hanno altri modi di rapportarsi rispetto ai poveri tradizionali e mettono molto più in crisi i volontari, perché attivano elementi di empatia che non possono essere soddisfatti semplicemente con una donazione, richiedono invece di pensare e progettare insieme l’intervento. Altro problema del nostro volontariato è che manca completamente la fascia di mezzo tra i giovani e gli anziani, cosa che complica la situazione perché si devono mettere in stretto contatto i due estremi, che sono per loro natura estremi e poco flessibili. Il volontariato, cattolico ma non solo, per come è esercitato attualmente non è sentito “al passo dei tempi” da questa fascia intermedia, anche perché l’era digitale ha cambiato il modo di porsi nei confronti dei problemi.

Si tratta quindi di capire come possiamo ridefinire quelli che noi chiamiamo i servizi di carità alla luce di una vision di altro tipo.

Sul fronte esterno, invece, l’efficacia degli interventi non può prescindere dal rapporto con l’estesa rete di soggetti pubblici e del privato-sociale che operano a supporto delle persone in difficoltà…

Certo, oltre all’elemento generativo è importante alimentare il lavoro di rete sul territorio, per questo siamo presenti ai vari tavoli di coordinamento del Comune di Torino, per essere nella rete o addirittura svolgere un ruolo generativo di reti specifiche. Sulla questione della gestione dei dormitori, ad esempio, abbiamo assunto un peso particolare, non solo per il numero rilevante di persone ospitate ma per le modalità che trovano riscontri estremamente positivi negli ospiti stessi. Oppure la rete che si sta creando sul progetto Pane nostro, con l’Ufficio scolastico territoriale e il Banco alimentare, o ancora le interazioni positive che stanno nascendo con enti che ci consentono di attivare tirocini lavorativi o assunzioni in numero anche considerevole, pur non essendo noi un’agenzia di avviamento al lavoro. La dimensione di rete ci ha permesso di realizzare anche cose che non ci aspettavamo, ad esempio per disabili gravi: seguiamo alcuni ragazzi in coma irreversibile che hanno bisogno di vari servizi di accompagnamento, non ultimo quello di genitori e familiari. Stiamo parlando di piccoli numeri, che però sommati danno un imprinting che ci fa essere attori particolari all’interno delle reti territoriali.

Sottolineo però che in tutte queste azioni noi siamo chiamati a promuovere la nostra specificità, che è la testimonianza di carità, quindi curare molto la motivazione per cui le cose vengono fatte e la connessione tra la vita di fede e testimonianze. Mentre il prendersi cura della qualità del servizio è caratteristica comune a molti enti e soggetti, la connessione tra fede e testimonianza è tipica di Caritas. Un altro elemento forte è il sostegno alla giustizia, perché ci stiamo rendendo conto che la situazione di crisi ha creato da parte di coloro che hanno responsabilità un senso molto forte di delega, che però nella maggior parte dei casi non funziona perché va contro il criterio di giustizia. Penso che oggi e ancor più in futuro Caritas diocesana ha il compito di promuovere azioni di giustizia, sopra le quali si innestano quelle solidaristiche, che aiutano ad ampliare la visione, le modalità e le relazioni.