SEI IN : CHI SIAMO > Il metodo Caritas
IL METODO CARITAS

ASCOLTARE

Non è sempre vero nei fatti che uno prima è e poi agisce, secondo l’antico adagio che af- ferma che l’agire scaturisce dall’essere. A volte le vicende si divertono a sovvertire i nostri bei schemi e sovente forse ci troviamo a dover agire per capire chi siamo.

I Centri di ascolto hanno avuto proprio la funzione di insegnarci a riflettere sulla dimen- sione dell’ascolto, al di là o in una più profonda dimensione di quanto non comporti il servizio stesso, la sua organizzazione e le sue tecniche. Intendo dire che i Centri di ascolto hanno svolto non solo un servizio alla comunità e al territorio, ma hanno costituito un elemento pedagogico per le caritas stesse, esattamente nel far procedere la consapevolezza che da un servizio svolto con cura e dedizione emergevano valori e indicazioni che non si potevano più ignorare.

L’ascolto infatti non è solo strumento e tecnica, ma metodo, nel suo senso etimologica- mente forte di percorso, cammino condotto non in forma solitaria, ma comunitariamente, in solido.

Proviamo a delineare alcuni tratti di questo cammino pedagogico e rivelativo della nostra identità.

In tutta la Scrittura risuona con forza e frequenza l’invito all’ascolto: Ascolta Israele…Se  tu ascoltassi la mia voce…Ascolta e vivrai (Per un approfondimento sul tema rileggere gli inter- venti di don Cesare Pagazzi al convegno “Degni dei poveri”)

L’uomo secondo la testimonianza biblica non può vivere se Dio non gli parla e se egli non impara ad ascoltare, perché l’uomo riceve se stesso, la sua identità e il suo destino dalla parola che Dio gli rivolge. Il tema dell’ascolto per un cristiano non è solo familiare, ma capace di susci- tare adesioni, consensi e magari anche elevazioni, perché, dobbiamo confessarci che, riferito a Dio, alla sua Parola, che diventa risposta di obbedienza, alla forma della relazione teologica tra credente e Creatore, esercita un fascino millenario presentando l’unica difficoltà, certo non pic- cola, della sua attuazione.

Ma il riferimento univoco a Dio ci farebbe perdere l’altra metà del cielo, vale a dire la sua analogia con l’ascolto dell’uomo. Non possiamo sfuggire a questa logica: Dio ascolta il grido del dolore e dell’oppressione che sale dal popolo in schiavitù, ma la sua volontà liberatrice trova in mani e cuore umani, quelle di Mosè, la strada dell’effettiva liberazione, quasi che la visibilità della volontà divina necessitasse storicamente di tradursi e concretizzarsi in un uomo che si fa- cesse specchio di tale visibilità e garantisse con il proprio ascolto l’ascolto divino.

Analogicamente, mettendoci di fronte all’altro, l’ascolto permette la comprensione di noi stessi, esattamente nel momento in cui comprendiamo gli altri. Se c’è infatti una doppia malat- tia del nostro tempo, troppo poco messa in relazione è la perdita di identità, che si manifesta nel disagio depressivo e l’incapacità di ascolto dell’altro. Se non si impara ad ascoltare, alla lunga, non sappiamo più chi siamo ed entriamo in confusione.

In secondo luogo l’ascolto si rivela come parte di un processo più complesso che è quello del dialogo, perché se c’è uno che ascolta o che è invitato a farlo è perché c’è qualcun altro che parla o desidera farlo.

Ascoltare assume così il senso radicale dell’esserci, del farsi presente, del rifiuto di fuggi- re, nell’indifferenza come nello spiritualismo, davanti all’altro e alle sue vicende, come anche davanti alla sue richieste e necessità. E questo ci conduce ad un terzo aspetto: l’ascolto quando non è di mestiere o interessato o troppo emotivo, ci pone di fronte alla inespugnabile libertà dell’altro, alla sua individualità irriducibile anche ai nostri buoni e volenterosi schemi. L’altro nella sua autonomia non sarà mai quello che noi vogliamo che sia. L’ascolto non può essere uno strumento di potere, anche se rivestito di buone intenzioni. Esso rimarrà solo e sempre la con- dizione necessaria all’incontro tra due libertà e all’eventuale miracolo di una vicendevole tra- sformazione.

Sotto questo aspetto la capacità e l’educazione all’ascolto non può essere solo ‘tecnica’, so- lo ‘gesto’ esercitato in appositi momenti e ambienti, come quelli dei centri di ascolto. Esso è in- vece modo e forma di essere di tutta la comunità cristiana che lo pone come il primo e qualifi- cante momento dell’incontro con l’altro, lasciando da parte la preminente, a volte, spontaneità moralistica del giudizio e dell’inquadramento a favore di un più libero accesso e avvicinamento all’altro, che lo percepirà come accoglienza di sé, teologicamente incondizionata, seppur dentro il limite tutto e inevitabilmente umano di colui stesso che accoglie.

Assumere l’ascolto come metodo, come percorso educativo significa allora tendere ad una chiesa che si mette in ascolto dentro e fuori: Vescovi e parroci che imparano ad ascoltare, visto che sono stati molto più abituati a parlare, a dirigere o a comandare, accorgendosi che, secondo il modello biblico, lo Spirito parla loro più con la voce di altri uomini che presuntuosamente in forma diretta al loro orecchio. Consigli pastorali che ascoltano prima e molto più di quanto non siano chiamati a decidere ed ad organizzare, singoli credenti che si interrogano non anzitutto su cosa fare, ma su chi, su che cosa e su come ascoltare.

OSSERVARE

Dopo l’ascolto e i termini che lo declinano, anche statisticamente segue nella Bibbia la terminologia del vedere, del guardare e dell’osservare, con quella denuncia dell’ambiguità del vedere, che è bene mettere subito in conto, secondo la stessa parola biblica.

L’ambiguità del vedere nasce fondamentalmente dalla tentazione ideologica che il ‘vede- reì comporta. Tentazione che si può manifestare a due livelli: quello religioso per cui noi sosti- tuiamo agli occhi di Dio che guarda e osserva i nostri occhi che guardano e osservano, ma non più a partire dallo sguardo divino che salva e fa vivere, ma dallo sguardo dell’invidia, del giudi- zio e dell’odio, arrivando alla blasfema identificazione del nostro sguardo con il Suo. In questo modo non è più lo sguardo di Dio che giudica e guida quello umano, ma al contrario è lo sguar- do umano che giudica e riduce quello divino. E c’è un secondo livello della tentazione, non di- sgiunto dal primo e che consiste nel non rendersi più conto della fallacità, della miopia, della confusione del nostro sguardo.

È per evitare questo duplice inganno che l’osservazione deve seguire l’ascolto e radicarsi in esso.

Anche sul tema dell’osservare-guardare la Bibbia è ricca di suggestioni. Dal Dio che guar- da soddisfatto la propria opera creata, che vede nel volto dell’uomo e della donna i tratti della propria fisionomia, che constata con amarezza il loro tradimento, che osserva l’umiliazione del suo popolo, che mette gli occhi su Abramo, Isacco Giacobbe, Mosè e infine che ci osserva e si fa osservare dagli occhi di Gesù Cristo.

Anche in questo campo la Caritas si è piano piano costruita una esperienza preziosa attra- verso gli Osservatori delle risorse e delle povertà e similmente al discorso fatto per i Centri di Ascolto, gli Osservatori non sono per noi fini a se stessi, ma sono diventati o chiedono di diven- tare la modalità tipica e originale della presenza della caritas in un territorio.

La caritas, ad immagine dei sette spiriti dell’Apocalisse, ha occhi dappertutto, perché nul- la le è estraneo dell’umano. Guarda dentro e fuori la comunità cristiana, convinta più che mai che l’uomo, ogni uomo, è la via della chiesa. Guarda vicino, intorno a sé, a quello che  succede, alle vicende che toccano o influiscono sull’esistenza degli uomini, guarda alla cultura, alla poli- tica, alla economia, guarda alle tragedie e alle lacrime, guarda il mondo dei non credenti, degli altri credenti, guarda fino ai confini del mondo, perché la caritas è lo sguardo e il cuore della chiesa. Ma lo sguardo che potrebbe essere incombente, minaccioso, giudicante o vuoto, nasce invece da occhi limpidi e cuore puro, che sono le uniche modalità dello sguardo con cui Dio ci guarda.

Vescovi e preti, Consigli pastorali e singoli credenti che reimparano a guardarsi e a cerca- re nel reciproco sguardo ciò che non è visibile agli occhi, perché lì risiede l’impronta di Dio.

Come per l’ascolto ci si deve esaminare su chi si guarda, su perché e come si guarda.

DISCERNERE PER ANIMARE

Dall’ascolto e dall’osservazione procede il discernere, che copre una vasta gamma di signi- ficati. Dal capire il quadro della situazione, al programmare l’azione, al decidere il tipo e le mo- dalità di intervento: tutto questo fa parte del l’ambito del discernimento. Gli aspetti visibili di questo terzo livello metodologico potrebbero essere condensati nelle opere segno e nei vari in- terventi sia di natura operativa che educativa, che la caritas è chiamata a mettere in atto.

Eppure anche questo momento non può essere ridotto e definito esclusivamente in base alle messe in opera. Da sempre si afferma in Caritas che le opere- segno hanno un irrinunciabile valore pedagogico che va fatto emergere ed affermato con assoluta priorità e forza, per non ca- dere nella tentazione o per non sentirci accusare di essere dei sostituti dello Stato sociale o le in- fermiere dei mali del nostro tempo!

Si parla di discernimento appunto perché il primo passo, la prima decisione da assumere è quella di sapere se e come intervenire, e nel caso affermativo come realizzare l’intervento in strettissima logica conseguenza con ciò che prima si è ascoltato ed osservato.

Ma si parla anche di discernimento, perché a differenza delle verità dogmatiche, che non ammettono differenti interpretazioni e dove, a volte, perfino le virgole sono importati, quando si tratta di azioni e realizzazioni la possibilità e la varietà degli interventi è molteplice, è quindi anche sempre discutibile, vale a dire che richiede e sottende sempre una responsabilità imme- diata su cui si può e si deve argomentare. Ma credo sarebbe ulteriormente riduttivo pensare che il discernimento si esaurisce in funzione della decisione di agire.

Per mantenere la sua carica pedagogica, il discernimento deve allargarsi a quella che pos- siamo chiamare a buon titolo dimensione profetica dell’agire credente. Con questa accattivante espressione intendo però un lavoro e un impegno teorico (nel senso etimologico del termine di ‘visione globale’) e una solida, stabile e faticosa propensione a pensare, cosa che paradossal- mente si denuncia scarsa o mancante nella chiesa perfino da parte degli stessi Vescovi!

Allora discernere non concerne semplicemente la definizione e la scelta del gesto, che in base all’ascolto e all’osservazione, si è capito di dover mettere in atto in un immediato futuro. Discernere è fondamentalmente delineare e tracciare la mappa di una comunità cristiana, di una società umana e di un mondo in tutte le sue diversificate sfaccettature e realtà (dalla salva- guardia del creato alla globalizzazione, alla cultura, all’economia, al potere, al futuro) che lungi dal costituire un giovanile sogno utopico, segni e tracci invece dei percorsi, su cui incamminarci e su cui invitare a camminare. Discernere è allora avere lo sguardo di Balaam (Nm 22,2ss) che si rifiuta di guardare l’immediato pagandolo con la cecità sul futuro, o avere la lungimirante pa- zienza del profeta, che ha la sua insuperabile figura in Mosè, che dal monte ha visto il futuro della terra promessa, lo ha indicato al suo popolo, lo ha condotto fino ai suoi confini, ma ha consegnato ad altri il compito di condurvelo. La sua tragica grandezza non è sminuita dal fatto che Giosuè ha attraversato il Giordano, ma dal fatto che il suo destino a favore degli altri si è compiuto esattamente nel gesto di indicare il futuro di Dio.

Imparando a vivere e realizzare sempre più le dimensioni dell’ascolto, dell’osservazione e del discernimento, non solo la caritas realizza se stessa, la propria vocazione mentre al contempo svolge il suo compito pedagogico di animazione della comunità, ma aiuta la parrocchia in questa fase di ripensamento e di trasformazione ad essere sempre meno istituzione, stazione di servizio, mercato del religioso, ufficio burocratico, estetica del cerimoniale, per diventare, come in questi ultimi anni i Vescovi hanno insistentemente indicato, luogo di incontro delle persone, esperienza di accoglienza libera e gratuita, casa di comunione, scuola di dialogo, proposta di percorsi, evento che segna e dà significato alla vita delle persone.

(Fonte: 30° Convegno delle Caritas Diocesane - Don Giovanni Perini)